dei deliri
E’ come un mare in tempesta, oscillo tra stati di nero pessimismo, autocommiserazione, autocondanna e rifiuto di me stessa a stati di pura e semplice felicità. Divisa in due tra quella che dovrei essere e quello che, sento, gratta sotto la superficie e graffia per uscire, travolgere e distruggere tutto per poter restare solamente in mezzo al caos. Divisa tra il pensiero che forse sono solo ormoni e dovrei semplicemente comprare un bel paio di scarpe e quello che forse l’unico momento in cui troverò un po’ di pace sarà quando sarò finalmente a migliaia di chilometri senza più nulla per cui guardare indietro, senza cui nulla per cui non dormire la notte o per cui svegliarmi al mattino. L’anno nuovo non ha interrotto quello che ha cominciato l’anno passato e io mi ritrovo al punto esatto di sei anni fa, in cui le giornate sono per lo più concatenazioni di cose da rifare tutte da capo, in cui non riesco a convivere con ogni singola parola io dica e vorrei solo, davvero, essere semplicemente una pietra e risparmiare il disturbo; vivere nuovamente tutto questo, con la nuova coscienza del suo significato che anni fa ancora non avevo, sapendo che è semplicemente la serpentina su cui si avvolge il mio cervello malato quando le cose non vanno bene, non cambia il fatto che essere una pietra, no, un riccio, un riccio fatto di pietra, sarebbe fantastico, non dover più fare cose e pentirmene, dire cose e volermi mordere la lingua, sentirmi completamente fuori posto ovunque io sia, tranne quando sono tra le sue braccia, e probabilmente è l’unica cosa che mi tiene con i piedi abbastanza per terra da non involvere completamente, dopo tutta questa fottuta fatica di anni a cercare di poter essere normale, relazionarmi con persone, provare quantomeno a simulare empatia. E senza quest’ancora probabilmente andrei a cercare qualcosa nell’unico posto che abbia mai sentito vicino e di cui oggi ho letto la descrizione come mille volte l’ho fatta nella mia testa senza mai parole e mi ha spezzato il cuore, e non troverei niente, perché non c’è niente, perché non cambia nulla, il posto, la gente, il tempo, se stessi, non cambia mai nulla, e preferisco pensare possano esistere posti diversi piuttosto di dover scoprire di aver ragione a pensare di no.
Devono esistere. Posti diversi, come quelle braccia. Ma non solo rifugi, luoghi in cui scappare e trovare riparo. Posti in cui vivere l’anormalità per quello che in realtà è: una ricchezza, un dono. Empatia vera, che accolga il mare in tempesta.
E può cambiare, sempre. Finchè c’è quell’abbraccio c’è anche la speranza.